di FULVIA CAPRARA (da La Stampa)
I personaggi sono tre. Lui, Roberto Rossellini, raccontato per la prima volta fuori dell’elegia neorealista e descritto, con gusto antropologico, come «un giovanotto della Roma-bene che s’era mangiato il patrimonio di famiglia e cercava di svoltare con il cinema». Lei, Anna Magnani, la grande attrice segnata per sempre dal «senso d’abbandono maturato per non aver mai conosciuto il padre ed essere stata abbandonata ancora piccola da una madre che l’aveva lasciata per andare a vivere in Egitto». L’altra, Ingrid Bergman, la diva venerata a Hollywood, nata per il grande schermo perché «aveva un volto e un sorriso unici, e una naturale propensione alla recitazione, poteva andare in scena anche senza trucco». Il luogo è la Roma caotica e vitale del dopoguerra, un posto dove tutto è permesso. Soprattutto a quella speciale categoria di persone, a quella stirpe di eletti, che si è guadagnata la fortuna di vivere facendo cinema. Sullo sfondo il Sud esotico e lontano delle Eolie. Isole dalle notti infinite, teatro di straordinari eventi naturali come le eruzioni vulcaniche, ma anche di amori, odi, passioni. E perfino, in quell’estate del ‘49, della lavorazione contemporanea di due film rivali, Stromboli e Vulcano, il primo firmato da Rossellini, il secondo da William Dieterle. Pellicole concorrenti, nate dal tradimento dell’autore che, dopo aver illuso il Principe Alliata di Villafranca, capo della «Panaria film», che avrebbe girato, con la Magnani protagonista, un film nell’arcipelago, incontrò la Bergman e cambiò rotta. Il nobile siciliano non si diede per vinto, ingaggiò il regista tedesco, americanizzato a Hollywood, e due mesi dopo l’avvio di Stromboli fu battuto il primo ciak di Vulcano. Segreti, spionaggi, dispetti. Le isole diventarono, da quel momento, il fulcro di una curiosa battaglia navale: «Nell’immaginario dei protagonisti era come se, invece di restare ancorate al fondo del mare con le loro radici di lava pietrificata, avessero preso a muoversi con l’agilità di veloci navi da guerra». Nel suo nuovo libro Le amanti del vulcano, che esce oggi da Rizzoli, Marcello Sorgi rilegge i fatti senza dare nulla per scontato. E così una storia nota, praticamente la Bibbia di qualunque critico, esperto o semplice appassionato di cinema, acquista tinte inedite e fiammeggianti: «Con tutte le sue qualità e i suoi terribili difetti», dice Sorgi, «Roberto Rossellini è un esempio perfetto di italiano». Un vero artista, come uno scultore o un pittore, pieno di inquietudini e di eccentricità che riguardano non solo il modo di amare, ma anche quello di vivere l’aria del tempo: «... i suoi repentini passaggi dal fascismo ai comunisti alla Dc erano in fondo basati su ragioni pratiche, di convenienza, sulla sua furbizia e sul suo senso di ironia». In «grandissimo anticipo su molti altri che non facevano il suo mestiere», il regista aveva capito che «l’Italia era un paese tragico e ridicolo insieme. Ridicolmente tragico. Tragicamente ridicolo». Un Paese ideale per far da cornice a quel girotondo di tradimenti e abbandoni, separazioni e gravidanze, litigi furiosi e pubbliche dichiarazioni che accompagnò la storia dell’amore tra Bergman e Rossellini. Da lontano, dall’America puritana, la scelta di Ingrid, lasciare marito e figlia per unirsi al maestro del neorealismo che per lei aveva piantato in asso la Magnani, fu giudicata male. Uno scandalo destinato a finire tra i banchi del Senato Usa, con l’intervento del senatore Edwin C. Johnson che definì Bergman «potente distillatrice del male, cultrice del libero amore e apostolo hollywoodiano della depravazione». Nella capitale, come sempre, gli estremi convivevano. Da una parte il Vaticano che tuonava contro il regista e il governo Dc in imbarazzo, dall’altra Via Veneto, di lì a poco regno della «dolce vita», dove tutto veniva metabolizzato come cibo per rotocalchi. Se Rossellini era un regista lunatico che ne aveva viste di tutti i colori, «un cinicone» cresciuto in una famiglia ricca poi andata in rovina, capace di «cogliere contemporaneamente la drammaticità e l’ironia, la retorica e la miseria, le speranze e gli alibi» dell’Italia del conflitto, Bergman era una star capace di separarsi dalla figlia Pia con una lettera di poche righe che appariva insieme «un messaggio d’amore e un’altra prova della sua inguaribile superficialità». Insomma, gente di cinema, abituata a muoversi tra comunicati e conferenze stampa, inadatta al vivere quotidiano, incapace di provare sentimenti autentici. Tra le cronache del tempo Sorgi sceglie quella in cui Irene Brin descrive l’attrice, ormai compagna ufficiale del maestro, alle prese con il difficile ruolo di signora romana che va a fare la spesa: «... stava lì tra gli scaffali, alta sulle scarpette nere a tacco basso, con un gran cappotto turchino, la voce esitante, i gesti complicati, il frequente sorriso delle straniere al mercato». Una freccia avvelenata, l’ennesima prova dello schieramento della stampa italiana, tutta dalla parte di Nannarella. Le sue intemperanze, dalla scarpa col tacco a spillo lanciata a Rossellini reo di «fa’ er fesso co’ qua’ fija de ’na mignotta» (Marilyn Buferd, una Miss americana che girava un film sulla Costiera Amalfitana) al piatto di spaghetti che colse il regista in piena faccia quando Anna intuì per la prima volta il pericolo Ingrid, erano capite e giustificate. Nelle reazioni della Magnani, anche quelle più disinvolte, come la relazione con «Colosseo», un giovanotto ingaggiato durante le riprese di Vulcano con il compito di carpire informazioni sul set di Stromboli, c’era ogni volta tutto il suo dolore. La catena degli abbandoni, iniziata con quello paterno e proseguita con gli amanti, da Serato a Rossellini, aveva contribuito a renderla attrice di ineguagliabile bravura. La disperazione era il motore delle sue prove più amate e applaudite. Eppure, dentro, la sofferenza era stata spesso insopportabile. Come nei giorni in cui, ospite, nella campagna inglese dell’amico Fabrizio Sarazani, la stella «digiuna, muta, se ne stava raggomitolata sul divano, incapace di prendere sonno». Nel trio, alla fine, è lei che spicca, reale più del neorealismo, tramontato insieme con l’unione tra Bergman e Rossellini. «La novità - scrive Sorgi - è che l’Italia era cambiata così rapidamente che neppure lo sguardo prensile di Rossellini aveva fatto in tempo ad accorgersene... dalla tragedia della sconfitta era nata insomma la commedia all’italiana, anche se Rossellini non era riuscito a capirlo».
Nella foto: Bergman e Rossellini